Il sintomo della coprofagia trattato con cariprazina

 

 

GIOVANNA REZZONI & LUDOVICA R. POGGI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XX – 28 gennaio 2023.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

L’isola più grande del pianeta, considerata una nazione costitutiva del Regno di Danimarca con il nome di Groenlandia, all’inizio degli anni Sessanta attrasse l’attenzione degli psichiatri, prima, e poi della comunità medico-scientifica di tutto il mondo: in quella remota regione artica le donne eskimesi Inuit[1], colpite da una sindrome descritta in passato come una forma etnica di isteria detta Piblokto o Pibloktoq, mangiavano le feci con assoluta naturalezza. Il sintomo coprofagico, già all’epoca associato a numerose condizioni psicopatologiche e neuropatologiche nosograficamente classificate, era un’assoluta rarità nella pratica psichiatrica e la stragrande maggioranza dei clinici non aveva mai visto neanche un caso di coprofagia in tutta la carriera. Per questo faceva scalpore l’elevata concentrazione in una remota zona della Groenlandia nordoccidentale, all’interno del Circolo Polare Artico, di casi di questo disturbo, detto anche isteria artica perché sembrava consistere in episodi di dissociazione isterica seguiti da amnesia.

Zachary Gussow applicò la concezione psicoanalitica dell’eziopatogenesi dei disturbi mentali allo studio della sindrome delle donne Inuit, pubblicando un articolo rimasto per decenni un riferimento imprescindibile per l’interpretazione psicodinamica della coprofagia[2].

Wallace e Ackerman non credevano affatto che la glossolalia, il denudarsi, l’amnesia e la coprofagia di quelle donne originassero da processi inconsci e da una fissazione a una tappa pregenitale dello sviluppo sessuale e dunque, contemporaneamente allo studio psicodinamico di Gussow, avanzarono tre ipotesi mediche all’origine delle manifestazioni cliniche: 1) epilessia psicomotoria, 2) ipoglicemia funzionale, 3) encefalite. Allo scopo di scoprire un nesso di causalità con una di queste tre condizioni eseguirono uno studio elettroencefalografico accurato, una rigorosa indagine istochimica del parenchima epatico e varie colture di virus[3]. Lo studio non riuscì a individuare alcun nesso.

Anche se lo studio di questa sindrome è stato poi a lungo accantonato e l’eziopatogenesi della manifestazione coprofagica non è stata fino ad oggi stabilita, questo comportamento che, ricordiamo, nella massima parte delle persone suscita repulsione, disgusto, ribrezzo, nausea e raccapriccio al solo menzionarlo, è stato rinvenuto in associazione con malattie medico-neurologiche, quali atrofia cerebrale, disturbi epilettici e tumori, e disturbi di pertinenza psichiatrica, quali ritardo mentale, alcolismo, depressione, schizofrenia, demenza, delirium tremens e la parafilia del feticismo[4]. Alla luce delle attuali conoscenze neuropatologiche, si può affermare che i casi diagnosticati si associano costantemente a un danno cerebrale e, dunque, l’ipotesi di una deviazione del gusto di pura origine psicologica non trova conferma. Anche il caso di una donna sui trent’anni studiato da Emma Collison-Ani e colleghi, che qui presentiamo soprattutto perché trattato efficacemente con un antipsicotico di terza generazione, ha visto la comparsa del comportamento dopo un danno ipossico cerebrale.

(Collison-Ani E., et al., Cariprazine for treating coprophagia and organic psychosis in a young woman with acquired brain injury. BMJ Case Report – Epub ahead of print doi: 10.1136/bcr-2022-248855, Jan 2, 2023).

La provenienza degli autori è la seguente: Neuropsychiatry Division, St Andrew’s Healthcare, Northampton (Regno Unito); University of Cambridge Medical School, University of Cambridge, Cambridge (Regno Unito).

Trattando questo argomento, sia pure per recensire lo studio terapeutico di un singolo caso, non possiamo tacere un problema di attualità culturale: ormai da oltre trent’anni dei movimenti ideologici, che di fatto agiscono a sostegno delle attività lucrative che sfruttano le parafilie, tentano con tutti i mezzi comunicativi e politici di imporre il proprio punto di vista, secondo cui le condotte umane parafiliche non devono essere medicalizzate in nessun caso, non devono essere studiate come sintomi psichiatrici o segni di malattie del cervello, ma sempre, in ogni caso, devono essere considerate “libere espressioni della personalità”.

Costoro, da un canto ignorano che alcuni tipi di danno cerebrale causano queste manifestazioni che, pertanto, sono a tutti gli effetti segni di patologia, dall’altro vogliono escludere l’uso del paradigma medico, dopo essere riusciti ad abolire quello morale in nome del politically correct[5], allo scopo di affermare l’idea della normalità e liceità di condotte quali la pedofilia, il sadico usare violenza o torturare per provare piacere, il masochistico procurarsi ferite o mutilazioni allo stesso scopo, oppure eccitarsi con gli escrementi.

Questi movimenti sono così presi sul serio dal nostro establishment politico-mediatico che da alcuni decenni non è possibile, ad esempio nei programmi televisivi, a medici, psichiatri e ricercatori parlare liberamente di questi argomenti illustrando la realtà dei fatti e le conoscenze acquisite in questo campo, perché si è fatta passare e si continua a difendere la menzogna che si tratta semplicemente di gusti. La questione della coprofagia ha fatto brutale irruzione nelle famiglie di tutto il mondo attraverso la comunicazione legata al Campionato del Mondo di Calcio in Qatar: dopo il periodo dell’hashtag virale #dubaiportapotty delle influencer che si esibivano in pratiche coprofagiche per emiri arabi, durante i mondiali si è saputo che questi ricchi erano disposti a pagare cifre esorbitanti per vedere delle modelle mangiare le loro feci o cospargersi con queste[6].

Un esame sommario del materiale mediatico rivela, in molti casi, un impegno nel difendere la perversione sessuale della coprofilia, ossia dell’essere eccitati sessualmente anziché disgustati dagli escrementi e, per difendere la coprofilia, costoro estendono anche alla coprofagia la loro imposizione a considerare normali queste condotte. Il concetto di “perversione sessuale” o “devianza sessuale”, abolito dal lessico psichiatrico perché sospetto di moralismo cristiano, in realtà originava da un semplice ragionamento biologico: l’istinto sessuale è un istinto riproduttivo e nella sua espressione naturale porta al desiderio dell’unione genitale.

Negli USA alcuni medici hanno pubblicato su internet il lunghissimo elenco di tutte le malattie cui certamente si espone chi ingerisce le deiezioni, con particolare approfondimento per le malattie batteriche e virali.

Abbiamo introdotto il sintomo coprofagico prendendo le mosse dagli studi sul Piblokto della Groenlandia ma, poiché anche su questo argomento sono state diffuse in rete tante inesattezze e veri e propri errori propagati per copie seriali, ci sembra opportuno fare chiarezza e ristabilire la realtà dei fatti documentati.

Convenzionalmente si fa risalire al 1892 la prima menzione della sindrome nelle donne eskimesi, ma è importante notare che i numerosi rapporti che menzionano come fatto di colore il comportamento delle ragazze sono redatti da esploratori dell’Artico o da navigatori in rotta nelle acque polari, e pertanto non devono essere confusi con descrizioni medico-psichiatriche. Il racconto più dettagliato – e tutt’altro che edificante – si deve all’ammiraglio Robert Peary impegnato in una spedizione in Groenlandia: giunto con i suoi uomini presso una comunità Inuit, assistette al denudarsi delle giovani donne e, rimanendo piacevolmente attratti dallo spettacolo, Peary e il suo equipaggio allontanarono gli uomini del villaggio, col pretesto di inviarli in missione, e rimasero da soli con le donne per poter abusare di loro[7].

Lo studio medico-psichiatrico del disturbo, associato a quello antropologico, ha fin dall’inizio rilevato che la sindrome non è presente solo nella cultura Inughuit delle regioni polari della Groenlandia ma si riscontra anche in altre regioni artiche, sembra associata alle lunghe notti artiche e colpisce pressocché esclusivamente le donne. “Piblokto” sembra sia il termine col quale convenzionalmente si indicava un episodio dissociativo acuto in quattro fasi: 1) ritiro sociale, 2) eccitazione, 3) convulsioni e stupore, 4) recupero[8]. Wen-Shing Tseng tratta l’argomento nel suo Handbook of Cultural Psychiatry citando un esempio tratto da Foulks di una donna di 30 anni che a due anni dal primo episodio ha un secondo attacco di circa mezz’ora, durante il quale corre fuori di casa nella neve e si denuda[9].

Anche se si è sempre considerata una sindrome legata alla cultura, si sono fatte varie ipotesi di alterazioni funzionali ad eziologia biochimica, la più nota è la tossicità da ipervitaminosi A. La dieta eskimese è caratterizzata da numerosi alimenti ricchi di vitamina A, fra cui fegato, rene, grasso di pesci artici e di mammiferi. In particolare, il fegato dell’orso polare e della foca barbuta contiene concentrazioni di vitamina A tossiche per l’uomo. Questa ipotesi non ha trovato conferme e non spiega perché siano colpite quasi esclusivamente le donne.

Lyle Dick, storico dei parchi canadesi, ha raccolto ed esaminato i 25 resoconti storici sulla strana sindrome deducendo, come si legge anche in Laurence Kirmayer (2007), che il disturbo non esiste e che fu creata una precisa casella nosografica per giustificare lo sfruttamento sessuale coloniale delle donne Inuit. A sostegno di questa tesi cita il fatto che nella cultura di quel popolo non vi è traccia di quella malattia e che il termine “piblotko” non esiste nella lingua Inuktun parlata dagli Inuit. Ma vari studiosi di psichiatria culturale hanno rinvenuto tradizioni orali del disturbo risalenti a prima dell’arrivo delle spedizioni esplorative, e le parole piblotko e piblotkoq sono traslitterazioni probabilmente imprecise di una formula usata dagli Inuit per indicare genericamente qualcosa di attinente al fenomeno. La questione fondamentale è che gli squallidi episodi di sfruttamento sessuale da parte dei navigatori non sono in rapporto né temporale né materiale con gli studi medico-psichiatrici. D’altra parte, gli esploratori avevano tutto l’interesse a far passare quei comportamenti per normale costume di quel popolo che, non si dimentichi, nel dovere di ospitalità includeva l’offerta sessuale delle donne agli uomini ospitati. Lyle Dick confonde i rozzi e incivili avventurieri, che nell’Ottocento si divertono a vedere le ragazze spogliarsi in preda a crisi e pensano solo ad approfittare di loro come Robert Peary e i suoi uomini, con i medici rispettosi della sofferenza, che nel 1960 hanno compreso di trovarsi di fronte a un fenomeno patologico e lo hanno studiato nella speranza di trovare una terapia. In ogni caso, resta la coprofagia, non rilevata dagli avventurieri e invece al centro dell’interesse dei medici.

Come sintomo non può essere accostato all’onicofagia, che si pratica sovente per tensione ansiosa portando le dita alla bocca come nel prendere cibo, in quanto presuppone un atto che non esiste nel repertorio naturale dei FAP (fixed action pattern).

In realtà, da molto tempo in psichiatria si ritiene che questo comportamento debba originare da un danno o almeno da una grave compromissione funzionale di circuiti con una lunga storia evolutiva legata all’origine della nostra specie, in quanto non solo la repulsione e lo schifo per le feci sono universalmente presenti negli esseri umani, ma la reazione mimica faciale di disgusto alla loro vista e alla percezione olfattiva del lezzo fetido che emanano per il contenuto in scatòlo, è stata osservata in bambini molto piccoli quale evidente reazione innata. Infatti, gli studi sull’espressione mimica faciale di stati cerebrali, inaugurati da Charles Darwin e proseguiti nel pluridecennale lavoro di Paul Ekman, hanno dimostrato che le espressioni di disgusto, paura, rabbia e di altri stati emozionali di base sono innate.

Emma Collison-Ani e colleghi hanno infatti supposto nella loro paziente l’esistenza di un danno prodotto a questa base cerebrale della sensibilità umana, oltre che al fisiologico regime delle connessioni funzionali che garantisce la fisiologia psichica.

La paziente è stata sottoposta ad esame obiettivo e a un accurato studio di laboratorio, ma non sono emersi dati di rilievo. In precedenza era stata trattata con l’aloperidolo, ottenendo immediatamente un azzeramento dei sintomi, ma con effetti collaterali indesiderati tali da richiedere la sospensione del trattamento con questo farmaco storico, efficace contro i sintomi psicotici ma da sempre limitato nell’uso e raramente prescritto ai giovani in Italia a causa degli effetti collaterali extrapiramidali ancora più marcati in giovane età. Sospeso l’aloperidolo erano immediatamente riapparsi la coprofagia e i sintomi psicotici.

La valutazione psichiatrica della giovane donna che ha patito l’ipossia cerebrale, condotta dagli autori dello studio, ha evidenziato una sintomatologia psicotica, disfunzione cognitiva e coprofagia. Si è deciso di provare il passaggio al nuovo farmaco.

La cariprazina è un antipsicotico di terza generazione e di introduzione relativamente recente in terapia in Italia[10], caratterizzato da una discreta efficacia sia sui sintomi positivi, quali deliri, allucinazioni, manierismi, stereotipie di moto, dissociazione logico-formale del pensiero, sia sui sintomi negativi, quali abulia, apatia, anedonia, ritiro sociale, senza evidenti effetti collaterali extrapiramidali (parkinsonismo da neurolettici) e metabolici, oltre a presentare un basso impatto sull’apparato cardiovascolare. Da un punto di vista farmacologico è un agonista parziale dei recettori dopaminergici D3/D2 con maggiore affinità per i D3, a differenza della maggior parte degli altri antipsicotici agenti solo sui recettori D2, e proprio questa particolarità farmacodinamica sembra conferirgli un’azione favorevole sui sintomi negativi e cognitivi della psicosi schizofrenica.

È opportuno, per comprendere meglio i motivi della scelta della cariprazina da parte di Emma Collison-Ani e colleghi, fare un breve approfondimento farmacologico, per il quale ci avvaliamo della rassegna condotta qualche anno fa da Andrea Fagiolini dell’Università di Siena e colleghi[11].

La cariprazina (RGH-188), molecola dalla formula C21H32Cl2N4O ideata da Gedeon Richter[12] come antipsicotico atipico ad ampio spettro per il trattamento di schizofrenia, disturbo depressivo maggiore, mania e depressione bipolare, con un profilo farmacocinetico e farmacodinamico originale. Presenta due metaboliti attivi, uno dei quali ha un’emivita di 1-3 settimane, cioè la più lunga fra gli antipsicotici atipici, con emivita effettiva funzionale totale di 7 giorni. Il farmaco mostra un’affinità per i recettori D3 circa 10 volte più alta che per i D2; con un’affinità per i D3 superiore a quella della stessa dopamina.

Oltre ad agire sui recettori dopaminergici è un agonista parziale del recettore serotoninergico 5-HT1A e un antagonista dei recettori 5-HT2B. L’azione su D3 e 5-HT1A migliora i sintomi negativi, l’anedonia e i sintomi cognitivi. L’affinità è inferiore per i recettori adrenergici, istaminergici e colinergici, che sono spesso responsabili di effetti collaterali. Grazie al profilo di tollerabilità (sicurezza cardiovascolare, bassa probabilità di dare sedazione e iperprolattinemia, basso rischio metabolico) e alla sua peculiare efficacia sui sintomi negativi e alla sua lunga emivita, che spesso migliora la scarsa aderenza, è un candidato per il passaggio da un antipsicotico inefficace, poco tollerato o con scarsa aderenza.

La paziente ha risposto bene alla cariprazina, con la scomparsa della coprofagia e dei sintomi psicotici.

In conclusione, l’esperienza di un singolo caso non fornisce alcuna indicazione significativa ma suggerisce due considerazioni: la possibilità di fare ricorso a questa molecola in casi simili e il livello dell’organizzazione funzionale cerebrale al quale si determina l’alterazione per causare una simile manifestazione.

 

Le autrici della nota ringraziano la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invitano alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni & Ludovica R. Poggi

BM&L-28 gennaio 2023

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Gli Inuit sono un popolo indigeno di regioni artiche e subartiche appartenenti a Groenlandia, Alaska e Canada. Sono spesso citati come inventori degli occhiali da sole, inizialmente concepiti come una protezione impenetrabile alla luce con due fessure orizzontali in corrispondenza delle rime palpebrali per consentire la visione.

[2] Zachary Gussow, Pibloktoq Hysteria among the Polar Eskimo. Psychoanalytic Study of Society 1: 218-236, 1960.

[3] Wallace Antony F. C. & Ackerman Robert E., An Interdisciplinary Approach to Mental Disorder among the Polar Eskimos of Northwest Greenland. Anthropologica 2 (2): 249-260, 1960.

[4] Ricordiamo che l’associazione con il disturbo ossessivo-compulsivo era solo un’ipotesi basata sulla presunta origine della nevrosi ossessiva, secondo Freud, da una fissazione dello sviluppo libidico allo stadio anale, ossia del controllo sfinterico.

[5] Come se si trattasse del rispetto di diritti civili.

[6] Sulla rete è corsa una massa inaudita di informazioni sbagliate, di propaganda coprofila e coprofaga, cui è seguita per “risposta” una fake news: il suicidio di una influencer ugandese per il “Porta Potty”, con tanto di video della donna che si lancia dal nono piano di un edificio di Dubai. In realtà, sembra che la donna suicida fosse implicata in un traffico di esseri umani (fonti: Il Riformista; la Repubblica).

[7] Wallace Antony F. C. & Ackerman Robert E., art. cit.

[8] Michelle Fulk, Pibloktoq, in Encyclopedia of Immigrant Health (Sana Loue Martha Sajatovic eds), pp. 1205-1207, Springer 2015.

[9] Wen-Shing Tseng, Handbook of Cultural Psychiatry, p. 244, Academic Press 2001.

[10] Commercializzata in Italia dalla Recordati dal 3 dicembre 2018, era stata approvata dall’EMA nel luglio 2017.

[11] Fagiolini A., et al. Rivista di Psichiatria 54 (6): 1-6, 2019.

[12] Laszlovszky Istvan, et al. Advances in Therapy 38 (7): 3652-3673, 2021.